Grandi Dimissioni: cosa sta succedendo sul mercato italiano?
A cura di:
Martina Mauri – Direttrice dell’Osservatorio HR Innovation Practice
I due anni di pandemia hanno profondamente trasformato gli equilibri e i rapporti di forza tra persone e organizzazioni, rendendo evidenti alcune criticità già osservabili negli anni passati e facendo emergere nuovi bisogni ed esigenze. A livello internazionale emergono sempre più spinte ad allontanarsi dai tradizionali modelli organizzativi: dall’emergere del movimento YOLO (You Only Live Once, “si vive una volta sola”), che mette in primo piano passioni e interessi personali rispetto alle convenzioni culturali e alla sicurezza del posto fisso, al successo del canale “Antiwork” del social network Reddit, diventato un punto di ritrovo e un’ispirazione per tutti quelli che sono scontenti della propria situazione lavorativa e vorrebbero un cambiamento radicale del sistema per lavorare meno o non farlo affatto, fino al movimento culturale nato in Cina “lying flat”, contro il superlavoro e il sacrificio personale in una società il cui paradigma è quello di essere sempre produttivi e in cui la concorrenza è ad alti livelli. Questo malessere si rispecchia inoltre nel fenomeno noto come “Great Resignation” o “Big Quit”, termini coniati negli Stati Uniti, dove nel solo mese di agosto 2021, secondo i dati rilasciati dal Dipartimento del Lavoro, il 2,9% dei lavoratori ha dato le dimissioni. Si tratta del valore più alto registrato dal dicembre del 2000, oltre 20 anni fa. Il fenomeno travalica i settori, ma anche i confini americani: numeri record sono stati registrati anche in Germania e nel Regno Unito. Per contrastare questa ondata di dimissioni volontarie, sia le grandi banche d’affari come Goldman Sachs sia le grandi catene della ristorazione e i retailer come McDonald’s hanno aumentato i salari minimi e quelli dei neoassunti. Ma la principale leva su cui agire non sembra essere quella economica. Come messo in luce dai movimenti sopra menzionati, più che a una ricerca di maggiore guadagno le cause sembrano essere legate a un desiderio di benessere ed equilibrio. Secondo molti studiosi si tratta di una risposta al disagio pandemico, all’esaurimento fisico e mentale (burnout) patito durante i lockdown, alla volontà di perseguire interessi e passioni personali conciliandoli al meglio con la vita lavorativa, di ritrovare maggiori livelli di flessibilità e autonomia nell’organizzazione del proprio lavoro o, come visto precedentemente, di prendersi semplicemente una pausa. Quello che è evidente è che l’emergenza Covid-19 che, da una parte, ha portato alla luce i malesseri dei lavoratori e, dall’altra, ha tracciato un nuovo percorso dimostrando che è possibile rimanere produttivi senza rinunciare ad una migliore qualità della vita e accelerato il desiderio di maggiori livelli di flessibilità e autonomia.
In Italia cosa succede? Secondo le note trimestrali sulle comunicazioni obbligatorie, tra aprile e giugno 2021, le dimissioni sono state circa 484 mila (+37% vs primo trimestre 2021). A differenza degli USA e degli altri Paesi europei, però, in Italia il mercato del lavoro ha delle debolezze strutturali che hanno radici profonde. Il numero dei cosiddetti Neet (Neither in Employment or in Education or Training), ragazzi under 30 che non studiano, non si formano e non cercano lavoro è il più alto d’Europa. Siamo il penultimo Paese per tasso di occupazione, la popolazione è in continua diminuzione e sempre più anziana, e prosegue l’emorragia di emigrazione di giovani spesso qualificati. In questo contesto il dato sulle dimissioni è un chiaro campanello d’allarme.
Per andare a esplorare questo fenomeno più nel dettaglio l’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano ha chiesto a un panel statisticamente rappresentativo di 1000 lavoratori italiani la propensione a lasciare l’organizzazione nel breve periodo. Il quadro che ne emerge è piuttosto allarmante: il 45% dei lavoratori dichiara di aver già cambiato lavorato o di avere intenzione di farlo a breve. In particolare, il 10% ha cambiato lavoro negli ultimi mesi, una buona parte senza avere un’altra offerta di lavoro al momento delle dimissioni, e il 35% ha intenzione di farlo nei prossimi mesi. Le percentuali sono ancora più critiche per alcune tipologie di lavoratori: i giovani (tra i 18 e i 30 anni), che sempre di più vivono forme di disagio legate sia alle restrizioni sociali sia alla difficoltà a sottostare a modelli organizzativi e valori in cui non si rispecchiano, e i professionisti ICT, molto richiesti sul mercato (1 posizione aperta su 5 è per un profilo digitale) e su cui c’è forte concorrenza tra le organizzazioni.
Ma cosa spinge le persone ad abbandonare la propria organizzazione in Italia? Tra le prime cause troviamo fattori legati alla ricerca di condizioni lavorative migliori, sintomo di un mercato del lavoro in salute e che si è ripresto dopo un periodo di fermo legato alla pandemia. In Italia l’aspetto retributivo non è per nulla un fattore trascurabile: in controtendenza a quanto avvenuto nei principali Stati europei, nel contesto italiano negli ultimi vent’anni le retribuzioni medie lorde annue si sono ridotte del 3,6% in termini reali.
Interessante però vedere come a seguire troviamo fattori nuovi, sintomo di una rottura rispetto al passato. Da una parte motivi collegati al benessere fisico e psicologico, segnale che le persone non stanno bene sul posto di lavoro e le organizzazioni faticano a prendersi cura anche di questi aspetti e dall’altra il desiderio di conciliare passioni e interessi personali con il proprio lavoro e la ricerca di maggiore flessibilità, soprattutto in termini di gestione del proprio orario lavorativo.
La Direzione HR quindi, oggi più che mai, sono chiamate a investire e reinventarsi se vogliono trattenere il capitale umano e non perdere la spinta verso il futuro. Invece di grandi dimissioni si potrebbe parlare di grandi scelte. Scelte per le persone, per ritrovare un nuovo significato al lavoro, migliori livelli di benessere, flessibilità ed engagement. Scelte per l’organizzazione e la Direzione HR affinché questo periodo non rappresenti un punto di rottura, ma un punto di svolta.
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