“Guardando al nostro Paese con gli occhi degli Osservatori, la sensazione precisa che abbiamo, a un passo dalla fine del 2015, è che la consapevolezza sulla rilevanza del digitale sia in fortissimo aumento anche in Italia. La cosiddetta digital transformation, la necessità di rendere digitali i processi prima che siano altri a farlo e di mettere in campo business model che sfruttino appieno le potenzialità delle nuove tecnologie, sta entrando prepotentemente nella testa di imprenditori e manager. Ed è soprattutto la paura di rimanere travolti dalla digital disruption, già abbattutasi su molti comparti dell’economia, a costituirne il principale motore”.
È l’incipit della nostra Introduzione al Rapporto dello scorso anno, che trova una conferma nel miglioramento – un po' superiore rispetto alla media UE – del DESI (Digital Economy and Society Index) 2016, l’indice messo a punto dalla Commissione UE per il Digital Single Market basato su cinque parametri: connettività, capitale umano, uso di Internet, integrazione delle tecnologie digitali, servizi pubblici digitali.
Ma se si passa dai tassi di miglioramento ai valori assoluti, la situazione appare assai meno confortante: il posto che occupiamo è tuttora il quart’ultimo della UE-28, alle spalle di Paesi ricchi come la Germania ma anche di Paesi con un PIL pro-capite sensibilmente inferiore al nostro. Diversi i motivi, e tra questi: la persistenza del digital divide; le forti resistenze della PA alla interoperabilità delle reti pubbliche, vissuta come una minaccia al sistema di potere radicatosi nel tempo; la prolungata stagnazione della domanda interna, che ha scoraggiato i nuovi investimenti (che solitamente “incorporano” le tecnologie più innovative); la disoccupazione elevata e la precarietà, ma anche la dispersione degli occupati “full time” in un numero elevatissimo di imprese, con un ovvio impatto negativo sulla formazione.
Il fatto positivo è che finalmente anche la politica sembra essersi resa conto del pericolo per il Paese di rimanere indietro e della necessità di un intervento di finanza pubblica, a fianco e a supporto delle iniziative private, sia per l’infrastrutturazione digitale delle aree cosiddette “a fallimento di mercato” sia per l’avvio di ricerche e sperimentazioni di smart manufacturing nell’ampio e variegato sistema industriale italiano.
Siamo finalmente sulla buona strada? È presto per dirlo, conoscendo i tempi che di solito intercorrono fra l’approvazione delle leggi e la loro concreta messa in opera e conoscendo i rischi che – in un Paese ad alto debito pubblico come il nostro – i fondi già approvati vengano dirottati a fronte di nuove emergenze: un disastro naturale, il salvataggio di una banca o dell’Alitalia, l’ennesima richiesta UE di rispettare i vincoli di bilancio. Quello che ci dobbiamo augurare è che il mondo politico si convinca che anche gli investimenti nel digitale sono ormai un’emergenza e che non accelerare i ritmi oggi – per recuperare il ritardo accumulato ed essere in grado di fronteggiare il contesto competitivo che si va delineando – potrebbe causare domani un vero e proprio terremoto in un sistema produttivo già stremato dalla lunga crisi.
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