Il benessere delle lavoratrici italiane
Tra gli “strascichi” da covid ne esistono alcuni di natura diversa da quelli a cui siamo abituati a pensare. Oltre al malessere fisico che la pandemia ha portato (e porta tuttora) con sé, ci sono sintomi più difficili da identificare, ma altrettanto deleteri, che colpiscono la salute mentale. La loro rilevanza è tale che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha affermato che a seguito della pandemia, a livello mondo, i disturbi di ansia e depressione sono aumentati del 25%.
Dai dati della Ricerca 2022 dell’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano in collaborazione con Doxa è emerso che solo il 9% dei lavoratori e delle lavoratrici italiane dichiara di “star bene” fisicamente, psicologicamente e socialmente, le tre dimensioni utilizzate per misurare il benessere al lavoro. La variabile maggiormente colpita è quella psicologica, complice l’intensificazione dei ritmi e dei carichi di lavoro che molte persone hanno vissuto nell’ultimo periodo. Tra le cause più frequenti di stress e ansia spicca la difficoltà a conciliare le attività lavorative con gli impegni della vita privata, sperimentata soprattutto nei lunghi mesi di lavoro da casa “forzato”, quando sono venuti meno i confini spazio-temporali a cui eravamo abituati. La condizione di malessere al lavoro si aggrava ulteriormente se letta alla luce dei livelli di engagement, sempre più bassi dall’arrivo della pandemia ad oggi. La percentuale di persone pienamente ingaggiate scende quest’anno di 6 punti percentuali, raggiungendo il 14% (nei primi mesi del 2020 era il 26% del campione).
A complicare ulteriormente il quadro “clinico” della società post covid, il fatto che i dati più allarmanti sul benessere – o meglio malessere – della forza lavoro si registrino per le donne: sono infatti le lavoratrici a percepire più frequentemente situazioni di malessere correlato al proprio lavoro per tutte e tre le dimensioni: psicologica (55% delle donne contro il 50% degli uomini), relazionale (48% delle donne contro il 40% degli uomini) e fisica (44% delle donne contro il 35% degli uomini). Una condizione questa che va di fatto ad infierire ulteriormente su quella parte di popolazione già svantaggiata in termini di tassi di disoccupazione e disparità di trattamento (non solo economico) soprattutto in Italia. Ricerche internazionali mettono in luce come questa sorta di “malessere diffuso” sia in realtà una condizione condivisa dalle lavoratrici da più zone del mondo. Il rapporto di McKinsey e LeanIn.org, “Women in the workplace”, afferma che negli Stati Uniti sono le donne ad aver sperimentato le condizioni peggiori per quanto riguarda lo stress: i casi di burn-out durante la pandemia sono aumentati più per le donne che per gli uomini (rispettivamente +42% contro +35%), in una lotta per gestire il “doppio ruolo” tra lavoro e sostegno alla famiglia.
Le conseguenze del malessere diffuso e di livelli di engagement sempre più bassi sono drastiche non solo per le persone, ma anche per le organizzazioni: si parla di Great Resignation o Big Quit, il fenomeno, sorto nel 2021, di abbandono “in massa” e volontario da parte delle persone del proprio lavoro. Anche nel 2021 e nel 2022 si sono registrati numeri da record sulle dimissioni volontarie, tanto che secondo i dati dell’Osservatorio, il 45% del campione è propenso a lasciare la propria organizzazione (il 10% ha già lasciato il lavoro e il 35% intende farlo nei prossimi mesi). Tra le ragioni principali che hanno spinto o spingerebbero lavoratori e lavoratrici ad abbandonare la propria organizzazione emerge al terzo posto (dopo l’aspetto economico e di crescita personale) la salute mentale e fisica. Ancora una volta, soprattutto per le donne. Oltre al benessere, un altro tema di attenzione per le lavoratrici è la flessibilità, sia oraria che di luogo da cui lavorare. Per gli uomini, maggior rilevanza vien invece data alle opportunità di crescita e carriera, alle passioni e interessi personali, al contenuto e al carico di lavoro e alla possibilità di avviare una propria attività. Ricerca di benessere e flessibilità rappresentano due prerogative, strettamente collegate tra loro, che caratterizzano maggiormente le lavoratrici donne, probabilmente in forza del fatto che a loro spetta più spesso il ruolo di “caregiver” verso famigliari e di gestione dei lavori domestici. Come conferma il rapporto Istat “I tempi della vita quotidiana – lavoro, conciliazione, parità di genere e benessere soggettivo” del 2019 sono le donne a dedicare la maggioranza del proprio tempo extra lavorativo alle attività di cura.
Inoltre, laddove lavoro e vita privata non risultino più integrabili e conciliabili, la conseguenza sarebbe drastica. Secondo un rapporto dell’Ispettorato del Lavoro che ha esaminato le dimissioni di lavoratori e lavoratrici con figli fino a tre anni, nel 2020 il 77,2% di quelle relative a dimissioni volontarie ha riguardato donne, in aumento rispetto al 2019 in cui la percentuale era del 73%. Il dato più interessante riguarda però le motivazioni delle dimissioni, sulle quali “esiste una profonda differenza di genere”: si tratta infatti di difficoltà di conciliazione tra il ruolo di caregiver e l’organizzazione del lavoro per le donne (tra il 96% e il 98%), rispetto al “passaggio ad altra azienda” per gli uomini.
La difficoltà da parte delle realtà organizzative a fidelizzare le proprie persone, evitando tassi di turnover elevati e ricadute pesantissime per il business, fa il paio con le criticità in termini di ingaggio e motivazione: negli ultimi mesi si parla sempre più spesso di “Quiet Quitting”, la tendenza da parte di lavoratori e lavoratrici a “fare giusto l’indispensabile”, “ridurre al minimo gli sforzi” e “non andare oltre quanto richiesto dal proprio ruolo e/o mansione”. Se da una parte questo nuovo fenomeno mette in luce una nuova consapevolezza da parte delle persone sull’importanza di salvaguardare benessere e tempo libero, rifiutando una concezione alienante e totalizzante del lavoro, dall’altra identifica livelli di motivazione sempre più scarsi, mancanza di purpose valori condivisi con l’organizzazione.
Da dove devono partire quindi le organizzazioni per lavorare su questi aspetti? Più del 35% del campione non si sente libero di parlare del proprio malessere fisico e/o emotivo nel proprio contesto lavorativo e, anche in questo caso, sono le donne a riportare percentuali più elevate (44%). Non solo, le donne hanno più timore nell’esprimere le loro debolezze e difficoltà all’interno dell’organizzazione (percepito dal 27% delle donne contro il 20% degli uomini). Alla base sembrerebbe dunque esserci un problema di tipo culturale derivante dalla mancanza di un ambiente “sicuro” dal punto di vista psicologico e che ispiri fiducia. Ed è da qui che si deve partire: dallo sviluppo di una cultura organizzativa attenta ai bisogni dei propri collaboratori e delle proprie collaboratrici, aperta all’ascolto e più inclusiva.
In seconda battuta è necessario tradurre questo nuovo mindset in azione, implementando iniziative e servizi ad hoc, sviluppando un approccio olistico al wellbeing calato sulle reali esigenze delle persone. Infine, oggi è fondamentale prevedere modalità di lavoro più flessibili, con orari più facilmente conciliabili con altri impegni quotidiani e con luoghi più accoglienti, configurati rispetto alle specifiche attività. Questi sono i primi passi da compiere per trasformare la propria organizzazione in un ambiente che faccia stare bene, che infonda desiderio di rimanere e di mettersi veramente in gioco.
A cura di
Chiara Tamma
HR Innovation PracticeRicercatrice Junior dell'Osservatorio HR Innovation Practice.
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